Le reazioni dei vitulatini al potere istituzionale e le lamentele contro gli amministratori locali. Sia nel periodo borbonico che in quello post-unitario, diversi documenti riportano lamentele dei cittadini contro il sindaco e gli altri amministratori del Comune. Anche se in gran parte esclusa dall’elettorato attivo, la popolazione partecipava intensamente alla vita politica del paese (anche se, talvolta, col rischio di farsi strumentalizzare), sia inviando lettere di denuncia contro gli amministratori corrotti, sia proponendo i nominativi di uomini “abili” a governare.

Nel gennaio 1816 il decurione Parisi scrive all’Intendente della provincia di Terra di Lavoro trasmettendo le denunce avanzate dai cittadini di Vitulazio nei confronti del loro sindaco, F. Saverio Benincasa. (Cit. ASCe, Intendenza Borbonica, Affari Comunali, Vitulaccio, b. 868)

Questi era accusato di aver falsificato il progetto dello stato di previsione dell’anno finanziario del comune; di «…avere estorto danaro nella spedizione dei mandati pel pagamento dei soldi agl’impiegati comunali…»; di essersi appropriato di 50 ducati del comune «…per la compra di una vacca…» ed, infine, di aver estorto denaro ad alcuni cittadini.

Eppure, già alle precedenti elezioni del 1813 la popolazione si era lamentata quando l’incaricato dell’Intendente, inviato ad esaminare gli amministratori del comune di Vitulazio, aveva scelto proprio il Benincasa per ricoprire la carica di sindaco. I Vitulatini avevano protestato contro tale scelta perché consideravano questo loro concittadino troppo giovane e per di più non benestante, come richiedeva la legge (il requisito dell’agiatezza economica era richiesto soprattutto nel presupposto che una persona bisognosa fosse più esposta a rischi di corruzione): a quel punto era stato lo stesso Benincasa a rifiutare l’incarico, definendosi giovane e inesperto.

Sezione a cura di Maria Di Nuzzo. 

La Carboneria a Vitulazio

Come si evince da quanto già detto, anche all’indomani del Congresso di Vienna, che riportò su parecchi troni europei le dinastie preesistenti alle guerre napoleoniche, molte delle riforme operate dai Francesi rimasero acquisite all’ordinamento giuridico dei vari Stati “restaurati”, sia in termini organizzativi ed istituzionali (razionalizzazione dell’apparato dei pubblici poteri), sia – almeno in parte – in termini di diritto (limitazioni degli antichi privilegi di classe, leggi civili più favorevoli all’affermazione della borghesia).

Quella che cambiò fu, ovviamente, la “cornice” politica, respirandosi quasi ovunque un clima pesantemente repressivo ed illiberale; e da qui la profonda delusione, che si espresse letterariamente nel Romanticismo ed operativamente nella lotta politica.

Quest’ultima si rese possibile solo con il ricorso ad associazioni clandestine, essendo stata soppressa la libertà di stampa e proibito l’associazionismo politico. Fu così che in Italia sorse la Carboneria, società segreta che perseguiva fondamentalmente la concessione delle libertà costituzionali e assai secondariamente l’indipendenza nazionale (da dominazioni o comunque da ingerenze straniere), così chiamata perché per comunicare fra loro gli affiliati usavano un linguaggio simbolico, che si richiamava al gergo dei carbonari.

Ad essa aderirono specialmente ex ufficiali napoleonici, professionisti, intellettuali, artigiani, oltre agli elementi più aperti della nobiltà e del basso clero. Adepti della Carboneria vi furono anche a Vitulazio, come conferma una lettera del 22 maggio 1822 inviata all’Intendente di Terra di Lavoro e firmata dai decurioni (consiglieri comunali) e da alcuni Vitulatini, per manifestare il loro disappunto nell’avere appreso che Michele di Pascale era stato inserito nella terna per la scelta del cassiere comunale.

La loro opposizione derivava dal fatto che il di Pascale aveva già ricoperto in passato, nell’ambito della sezione cittadina della Carboneria, la stessa carica di cassiere. (Cit. ASCe, Intendenza Borbonica, Personale Comunale, Vitulaccio, b. 449).

 

Le contrastanti reazioni dei Vitulatini all’avvento dei Savoia

Il 21 ottobre 1860 il Mezzogiorno sanzionò con un plebiscito, voluto da Giuseppe Garibaldi, la propria annessione all’Italia. Nella sola Napoli i risultati del plebiscito furono di 100.690 “SI” e di appena 104 “NO”.

Il 7 novembre, dopo la resa di Capua, Vittorio Emanuele entrò in Napoli sfilando in carrozza con Garibaldi. Pur con la pioggia battente, lungo il percorso si era radunata una grande folla plaudente che acclamava principalmente Garibaldi, sebbene questi con il gesto della mano indicasse il re.

Anche a Vitulazio, come in tante altre località del meridione, l’ingresso a Napoli di Vittorio Emanuele fu solennemente festeggiato. Ne è prova una lettera ( con cui il sindaco del tempo, Luigi della Cioppa, chiede al Governatore della Provincia di Terra di Lavoro, Salvatore Pizzi, il rimborso delle spese sostenute per l’illuminazione del paese per tre giorni, nonché per i lumi, per i fuochi artificiali, per una bandiera tricolore, oltre che per quattro litografie rappresentanti il re e Garibaldi. (Cit. ASCe, Intendenza Borbonica, Affari Comunali, Vitulaccio, b. 877).

Il Meridione, in sostanza, lungi da qualsiasi nostalgia “indipendentista”, si sentiva già pienamente integrato nella nuova Italia: si metteva con fiducia nelle mani del governo Piemontese, nella speranza di migliori condizioni di vita morali e materiali.

Le cose non andarono esattamente così. Provvedimenti impopolari – ad esempio le tasse gravanti su generi di primissima necessità, l’imposizione di una leva obbligatoria di durata interminabile – , resi in parte necessari anche dalle recenti o perduranti vicissitudini belliche e dallo sforzo organizzativo dello Stato nascente, delusero le attese soprattutto nella sensibilità popolare (oltretutto esposta alla propaganda sobillatrice della parte più reazionaria del clero), mentre i tempi, per quelle stesse ragioni, non erano certo propizi ad una politica d’impulso dell’economia meridionale e di livellamento delle disparità, auspicata forse con troppa impazienza e con poco realismo dalle classi più colte (che, beninteso, avranno fondatissimi motivi di recriminazione in tempi storicamente successivi); al tempo stesso, un eccessivo centralismo nella gestione del potere fece sentire talvolta mortificato il ceto intellettuale che si proponeva come classe dirigente.

Ed allora, nella volubilità impulsiva che è tipica della gente del Sud, quel rapporto che si era alimentato di speranza e di fiducia fece posto a una diffusa sensazione di diffidenza, o talvolta di aperta ostilità, fino alle posizioni estreme di nostalgia filoborbonica e di quanti asserivano essere stato il Meridione, per i Piemontesi, pura e semplice terra di conquista.

Di questo mutato stato d’animo è prova un documento ove si riporta che l’8 aprile 1861, in occasione della festività della Madonna dell’Agnena, Alessandro e Venanzio Aiezza “soverchiati dal vino” gridarono pubblicamente Viva Francesco II: episodio certo non isolato, che per quegli anni trova analogie in quasi ogni altro comune meridionale.

Il fatto pervenne al delegato di polizia di Capua che, per ordine del Governatore della Provincia, fece arrestare i due uomini; seguì un processo che, per fortuna dei due arrestati, si concluse con la loro assoluzione. Per il medesimo reato furono in seguito arrestati altri due Vitulatini: Francesco di Lillo ed Angelantonio Garofano. (Cit. ASCe, Gran Corte criminale, F. 184 – Processo n. 2852).

Ricerca a cura di Alessandra Cecere, Maria Di Nuzzo, Giovanni Giudicianni, Marilia Maio, Maria Tommasone, Monica Tortorelli.

Pucclicata sulla Rivista di Terra di Lavoro – Bollettino on-line dell’Archivio di Stato di Caserta – Anno III, n° 1 – Aprile 2008.

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